Made in China: un formicaio in espansione


Ormai è allarme sociale, l'Unione Europea ha deciso d'intraprendere misure d'emergenza per fermare l'egemonia Cinese, che sta invadendo non solo l'Italia con la produzione e vendita di prodotti specialmente il tessile a basso costo.
Il cappio si sta stringendo sugli imprenditori Italiani rimasti in patria, ma ancor di più sulle famiglie, che vedono nel Made in China l'ancora di salvezza a breve per contenere i bilanci famigliari sempre più esigui, e ma che creano una spirale degenerativa alla nostra produzione, che non sa reggere la concorrenza del basso costo della mano d'opera Cinese.

Stanno giungendo al pettine i nodi del liberismo economico che il Fondo Monetario Internazionale (FMI), l'Organizzazione Mondiale per il commercio (WTO) impone sempre di più agli Stati membri come l'inserimento del precariato costante, e l'abbassamento degli standard di sicurezza sociale atti a contenere i costi nelle Nazioni industrializzate, e dall'altra parte piange quando un Paese come la Cina, complice anche le nostre aziende nazionali desiderose di realizzare profitti sfruttano le condizioni sociali che da noi si vorrebbe far arretrare, c'invade.
Si chiede continuamente al cittadino Europei nuovi sacrifici, e si delocalizza dall'altro capo del mondo (chiamandole Economie di Scala, Sinergie o Jont Venture) dove le rivendicazioni sindacali sono una mera chimera.
L'Italia stessa si è dimenticata il miracolo Italiano degli anni '60, quando vittime della povertà generata dalla seconda guerra mondale, il Paese è riuscito grazie anche ai prestiti internazionali e al basso costo della manodopera a risollevarsi dal sanguinoso conflitto che l'aveva devastato, facendo nascere nel decennio successivo le conflittualità  che portarono ad un ridimensionamento degli orari di lavoro ed ad un lento ma progressivo innalzamento degli standard di sicurezza sul lavoro e di tutela del lavoro minorile.
Ora imputiamo alla Cina la forza del nostro stesso miracolo di quarant'anni fa, dove gli Italiani andavano fieri dei successi economici nazionali che contribuivano a creare un'immagine nuova della Nazione nel mondo.
L'Europa come da qualche anno gli Stati Uniti sono diventanti i maggiori consumatori di prodotti Made in China, avendo iniziato per primi il processo di delocalizzazione in aree a tasso quasi nullo di sindacalizzazione, spingendo l'Europa ed Italia a seguire lo stesso esempio, smantellando quasi de facto lo stato sociale che ha portato all'impoverimento generalizzato, complice anche l'11 settembre 2001 che ha arrestato la spirale di crescita, scaricando sui cittadini il costo finale dell'ingordigia economica.
Arrestare l'invasione Cinese, produrrebbe una serie di conseguenze a cascata di difficile controllo; forse vedrebbero le nostre industrie tornare ad investire i loro capitali all'interno dell'Unione contribuendo a livellare gli di standard di vita presenti nei diversi Stati, facendo crescere i paesi appena entrati e quelli che si apprestano nel 2007 a divenire membri a tutti gli effetti.
L'Unione, dovrebbe rendere difficoltose le importazioni alle industrie Europee che delocalizzano produzione o l'appaltano a terzisti, portando dalla fonte della catena produttiva a rispettare gli standard Comunitari e favorire la crescita all'interno degli stati membri e ai candidati dell'Unione.
Si corre ai ripari quando i buoi sono scappati e si sono replicati avendo superato in pochi anni il gap tecnologico ed industriale che aveva gravato sulla società Cinese, volendo sacrificare i vitelli che cercano di stillare le ultime gocce dalle tasche vuote, nel frattempo creare poli industriali e di brand dedicati all'alto lusso e all'alta industrializzazione tecnologica rendendo questi prodotto accessibili solo a fasce ristrette della popolazione che possono permettersi il griffato, aumentando ancor di più il divario fra ricchi e poveri, che vedrebbero innalzati anche i prezzi dei prodotti provenienti dalla Cina in caso d'imposizione di dazi o dell'inasprimento delle barriere doganali, perdendo di convenienza e contribuendo ad aumentare le fasce di povertà.
L'unione Europea sta mostrando in questo frangente i limiti di cui è pregna, avendo per decenni proclamato come imperativo solo il benessere dettato dalla presunta economia di mercato, ma ora mostra che essa non è sufficiente al benessere e alla stabilità dell'Europa, se assieme alla costruzione della casa comune, non si costruisce l'etica dell'imprenditoria Europea, che mostra paura e affanno quando l'espansione del mercato è altrui e arriva a casa propria a dettare regole le sue, ed ecco che diventano un pericolo che mina la stabilità stessa.
Nell'immediato fermare la Cina è un palliativo da dare in all'opinione pubblica, dovuto alla debolezza ormai strutturale dell'industria Occidentale che molto difficilmente riuscirà fermare ai confini una crescita più che quadrupla del Pil Europeo che potrebbe far diventare in pochi anni l'Europa stessa preda dell'espansionismo dal capitalismo socialista, fagocitando con acquisizioni i grandi marchi occidentali, come fece il Giappone degli anni 80 negli Stati Uniti, e diventare la futura potenza egemone del XXI° secolo senza la necessità dell'imperialismo militare, se riuscirà nei prossimi anni a fermare sul nascere ogni eventuale forma di sindacalizazione in quanto nemica del socialismo e ritenuto pericoloso per il benessere e la stabilità della Cina stessa.
È necessaria una riforma radicale del concetto d'Economia di mercato, non influenzata all'acquisizione della ricchezza in una moltitudine ristretta di popolazione, ma un equa distribuzione del benessere sociale, affinché Europa sappia farsi carico delle classi più disagiate ma volenterose che desiderano evolversi verso un benessere economicamente etico, non di predazione del ricco sul povero, solo allora l'Unione Europea potrà dire d'aver intrapreso la strada della comunanza di valori sociali e culturali, spesso messi in secondo piano a favore del liberismo sfrenato che ora bussa ai nostri confini e che ci trova ingordamente impreparati all'etica del consumo di un economia solidale che accolga le sfide all'interno dell'Unione, perché il primo mercato sia nella produzione e nel consumo nei confini sempre più ampi di un Europa che si sposta ad Est, futuro centro e ponte tra oriente ed Occidente che deve essere la nuova beneficiaria del bisogno di crescita e stabilità dei confini che volgono all'Asia.

Marco Bazzato
Sofia (BG), 27.04.2050
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